Roma, New Mexico (di Stefano Moriggi)

Nov 27, 15 Roma, New Mexico (di Stefano Moriggi)

Stefano Moriggi

Docente Universitario

La nostra prima volta. Lavoravamo entrambi ad un programma prodotto dalla Stand By Me, “E se domani”, nell’ottobre del 2012. E’ un tipo brillante e colto.

Roma, New Mexico

Ponte di Ferro, Roma, 2012 (iPhone)

La foto. Mi piace questo scorcio e quando le nuvole si danno appuntamento lì sopra, ancora di più. E’ un angolo di provincia americana nel mezzo della capitale.

 

Stefano Moriggi -Roma, New Mexico, Ponte di ferro, 2012 (iPhone)

Roma, Ponte di Ferro, 2012 (iPhone)

Diceva Paul Klee che l’arte non si limita a riprodurre ciò che è visibile. Fa ben di più, “rende visibile, l’invisibile”. Questa fotografia non fa eccezione. Anzi, per certi versi, porta la teoria del pittore svizzero all’estremo. Infatti, ciò che più mi ha colpito dello scatto di Claudio è il ponte.
Alludo ovviamente al ponte che non si vede – e che non si può vedere – perché è il luogo dal quale il fotografo ha scelto di raccontare una Roma anomala, inattesa. Sorprendentemente algida e ruvida, come solo certe periferie inglesi sanno essere di sabato pomeriggio, a quell’ora in cui le case e le nuvole si sintonizzano sullo stesso tono di grigio.
Confesso. L’ho riconosciuta solo grazie alla mia passione per i treni, ma non subito. Il paesaggio a prima vista mi pareva familiare ed estraneo al tempo stesso. Finché ho inteso che la soluzione di quello che sembrava un inestricabile rompicapo visuale andava, appunto, cercata nell’invisibile. Ovvero in quel ponte che, qualche anno fa, anch’io ho visitato.
Costruito tra il 1862 e il 1863 da una società belga, il Ponte S. Paolo – così si chiamava inizialmente – era stato progettato e realizzato per unire la linea ferroviaria di Civitavecchia con la Stazione centrale di Termini. Divenne presto il Ponte dell’Industria – ma, ancor più confidenzialmente, per i romani è il “Ponte di Ferro”.
Ora si stende sul Tevere come una vecchia carcassa abbandonata dai convogli e oltraggiata dal secondo principio della termodinamica. Ma col suo fascino discreto rimane, però, il testimone e il custode di molte vicende – a partire dalla sua. Che ebbe inizio in Inghilterra, dove furono prodotti le arcate e i tubi, di ferro e di ghisa, che attraversarono la Manica per essere assemblati poi sul posto.
La prima locomotiva lo attraversò il 10 luglio del 1863, ma il vero experimentum crucis avvenne quattro giorni più tardi, quando gli ingegneri pontifici ci fecero transitare contemporaneamente due treni. Superate le “prove di carico”, mancava solo l’inaugurazione ufficiale a cui volle essere presente anche Pio IX. E il Pontefice, così raccontano i testimoni, in quel pomeriggio del 24 settembre rimase ammirato nel vedere come soli quattro uomini riuscissero addirittura ad “animare” la parte centrale della struttura – progettata, appunto, per alzarsi e abbassarsi, consentendo così il traffico dei natanti.
Il gigante mobile che aveva unito via del Porto Fluviale a via Antonio Pacinotti prestò servizio fino al 1910, quando si decise di deviare la strada ferrata. Da quel momento, dopo un’opera di restauro e riadattamento, solo pedoni e veicoli percorsero i suoi 131,20 metri. Anzi, no. Anche la storia decise di passare ancora una volta di lì.
Infatti, il paesaggio urbano ritratto nella fotografia di Claudio è anche ciò che si vede dal punto in cui, il 7 aprile del 1944, dieci donne vennero fucilate. Erano state soprese da alcuni soldati tedeschi in possesso di pane e farina sottratti ai mulini Tesei, che rifornivano le truppe di occupazione.
Non morirono per un furto, ma per insubordinazione a un potere iniquo e violento. Il 26 marzo di quello stesso anno, infatti, il generale Kurt Mälzer aveva dato ordine di ridurre a 100 grammi la razione giornaliera di pane da destinare alla popolazione civile. Davanti ai forni della città iniziò così a montare la protesta delle donne; al punto che le autorità militari si videro costrette a farli presidiare, oltre che a scortare i mezzi di trasporto con cui il pane veniva consegnato alle caserme.
Finché, quel venerdì di Pasqua, un gruppo di donne del Portuense, dell’Ostiense e della Garbatella decise di fare irruzione in quei mulini a pochi passi dal Tevere, approfittando di un momento in cui nessuna guardia vigilava sul deposito di pane bianco.
Ma qualcuno avvisò la Wehrmacht che, giunta sul posto, le soprese in fuga con il loro magro bottino. L’accesso al ponte fu bloccato e, appunto, dieci di loro non ebbero scampo. “Le disposero contro la ringhiera del ponte, il viso rivolto al fiume sotto di loro. Si era fatto silenzio – scrisse poi la partigiana Carla Capponi – si udivano solo gli ordini secchi del caporale che preparava l’eccidio”.
Quel silenzio risuona in questa foto che ripropone il loro ultimo sguardo sul mondo e che offre a noi il punto di vista di una storia che merita di essere resa visibile, anche con uno scatto.