Parole per Imola: Radici

Ott 09, 17 Parole per Imola: Radici

Giuliana Zanelli era già professoressa quando frequentavo io il Paolini, nella seconda metà degli anni ’70, ed era già per molti di noi un mito: preparata, mite, profonda, delicata, autorevole, curiosa, sensibile. Gli studenti che hanno imparato l’italiano con lei hanno avuto una grande fortuna. Da tanto tempo, ben prima di andare in pensione, si occupa di storia locale. La sua rubrica su Leggi La Notizia è deliziosa. Poi mi ha molto divertito il fatto che abbia cominciato a fare teatro (e spero mi perdonerà per la foto che ho scelto). Ma Giuliana è una figlia della nostra città, una donna che ha guardato le cose da un punto di vista particolare. Suo padre, Ezio Zanelli, è stato per Imola ciò che Di Vittorio è stato per l’Italia. Perseguitato politico, esule (da Vienna alla Svizzera, dalla Spagna all’Unione Sovietica a Parigi e in chissà quanti altri posti ancora) e segretario della Camera del Lavoro (dal 1946 al 1951) è stato un protagonista della ricostruzione della nostra città. Imola come pochi altri posti in Europa ha vissuto una congiunzione particolare: dopo la guerra tornò a casa una classe dirigente forgiata dalle sofferenze, dalle difficoltà, dalle perdite di persone care, dalla tortura. I comunisti, in particolare, tornavano da Mosca, altri avevano fatto la Guerra di Spagna, alcuni avevano trovato rifugio a Parigi. Poi c’erano quelli che avevano fatto la Resistenza in montagna, altri nella bassa romagnola. Esperienze terribili. Tutti si ritrovarono per decidere che strada prendere, chi li doveva guidare e chi doveva fare il gregario di lusso. Non fu facile per nessuno, ma da quelle scelte si è arrivati ad una sintesi straordinaria e feconda che ha dato vita alla Imola che viviamo oggi. Ecco: nessuno meglio Giuliana Zanelli poteva declinare la parola Radici: quando l’ho letta mi sono emozionato. (Claudio Caprara) 

 

 

RADICI

Una metafora, ovviamente. Ambigua e contigua a parole come identità ed etnia che se riferite a interi gruppi sociali producono stereotipi, barriere, esclusioni. Una parola-metafora logorata dall’uso. Non siamo alberi, e per quanto ci segni l’essere nati e cresciuti in un tempo e in un luogo, come umani apparteniamo a una specie nomade. Personalmente sono stanziale, ma il bisogno di allargare gli orizzonti mi ha spinto a indagare il passato sulle tracce che donne e uomini di altre età hanno lasciato negli archivi e nelle pietre della mia città. Così viaggio attraverso i mutamenti che il tempo ha portato.

Bisogna essere stati altrove e a lungo per avvertirli. Come Cita Mazzini, che ai primi del Novecento andò in Sudamerica, e quando tornò trovò Imola senza più né porte né mura. O come mio padre che, rientrato dalla sua lunga lontananza di perseguitato politico, vide le macerie dei bombardamenti e i vistosi indelebili interventi impressi dal regime nel centro storico. Ma la lingua gli risuonò certo antica e famigliare, quella che aveva sempre avuto con sé come una piccola patria segreta nel cuore di tutti i suoi esili.

Le radici sono un viluppo, ciascuno ha le proprie e le porta per il mondo e si apre a nuovi innesti.

Diciamo “radici” e pensiamo alle tradizioni. Ma queste mutano e si creano incessantemente, dando luogo a molteplicità e differenze. Ispirarsi al passato, alle tradizioni, comporta la scelta tra cose diverse. E occorre poi avere voglia di conoscerlo questo passato, che non vuol dire subirlo, o aggrapparvisi come a un’ancora di salvezza della nostra ignavia e mancanza di coraggio.

Il passato: guardarlo, bisogna, oltre la soglia delle due o tre generazioni che ci stanno alle spalle, guardarlo senza i filtri della pigrizia e delle ideologie, e soprattutto evitando il vanto identitario delle “radici”, armatura fragile e ingannevole che non ci esime dall’inventare e rischiare i passi verso il futuro.