Considerazioni attorno la sospensione delle pubblicazioni de l’Unità

Quando chiude un giornale è sempre una sofferenza.

Dentro la redazione de l’Unità ci sono molte persone che conosco da tanto tempo, professionisti capaci e belle persone. Comprendo la loro delusione, la rabbia e la sensazione di essere stati abbandonati, traditi, presi in giro.

Conosco abbastanza bene anche il lavoro e la fatica che ci sono stati in questi anni per cercare di progettare una forma adeguata al cambiare del mondo e dei tempi dell’informazione. Attorno e dentro a l’Unità c’era una tensione creativa anche in questi ultimi anni superiore a quanto si è visto da fuori. Sempre queste idee sono andate a sbattere contro le compatibilità del mercato, contro chi detiene i flussi pubblicitari e contro chi – tra i decisori – non ha capito che non si poteva far marcire il problema, come era stato fatto nel 2000, come si fa sempre sulle cose che riguardano l’informazione e la comunicazione politica.

Le aziende editoriali e la politica, ai tempi di internet, non possono più funzionare come negli anni ’70 e gli unici casi di successo – se lo sono ancora – hanno vinto perchè sono diventate realtà in sintonia con la società, con le realtà territoriali che hanno rappresentato e non avevano un padrone politico dispotico che dettava la linea: parlo in particolare del “sabato sera” di Imola che ho avuto la fortuna di dirigere e di altre rare realtà sul territorio.

Il caso de l’Unità è ancora più particolare. Quando Colombo e Padellaro presero in mano questo giornale ne fecero un prodotto di successo perchè non ascoltarono neppure un momento quale fosse l’opinione della segreteria del partito e sposarono i Girotondi blandendoli e diventando di fatto il loro organo. Politicamente fu un danno per il partito (e per la cultura della sinistra italiana: fu la culla del grillismo e del giustizialismo), ma dal punto di vista del mercato era la scelta da fare in quel momento. I DS se la cavarono adottando una doppiezza tipica della nostra tradizione: in via Palermo si diceva peste e corna del giornale, ma in edicola vinceva il direttore.

Quell’esperienza si chiuse con un tentativo di mediazione che si poneva ad un alto livello (l’ingresso di Soru e la direzione di Concita De Gregorio) che volle Walter Veltroni e che poteva cogliere dal punto di vista giornalistico lo spirito della svolta del Lingotto. Per un po’ funzionò. La nascita de Il Fatto Quotidiano e la rapida eclisse veltroniana hanno spinto l’Unità nelle secche di questi anni. Ma la sfida di quel progetto era troppo ambiziosa per le forze reali che era in grado di mettere in campo.

L’affannarsi generoso di Fabrizio Meli nel cercare soci finanziatori, nel cercare di fare passare dei progetti di ristrutturazione complessiva della comunicazione dei democratici, la deriva di tutta la vecchia stampa di centro sinistra (per non dire di tutta la stampa politica) si è accompagnata alla progressiva e inesorabile erosione del contributo pubblico all’editoria. 

Da una parte cadevano in picchiata le vendite in edicola e dall’altra non si investiva sull’unico modello di business possibile: il web. La struttura continuava ad essere pachidermica e i nuovi proprietari – che non mi pare abbiano mai avuto chiaro in quale scenario si erano inseriti – non hanno mai scelto una linea imprenditoriale sana e precisa.

Sorvolo sulle scelte comunicative bersaniane, in linea con l’estetica della bocciofila, con l’attenuante di avere scelto come direttore Claudio Sardo che è un grande professionista, uno dei più profondi conoscitori della politica italiana e una persona di straordinario valore umano. Ma non è un trascinatore. Non aveva gli strumenti per “rendere commerciale” il bersanesimo. Ha fatto quello che ha potuto e la direzione di Luca Landò si è trovata a gestire il giornale in una situazione paradossale: un nuovo segretario (per nulla amato dai tradizionali lettori del giornale) che non ha neppure avuto il tempo di sedersi alla sua scrivania che già si è trovato a Palazzo Chigi. Quindi l’Unità di fatto era l’organo di opposizione al segretario più votato della storia della sinistra italiana, che ha portato il suo partito al 40%… Come era ovvio quel successo popolare strepitoso non è stato minimamente intercettato dal giornale nelle edicole e l’affannarsi delle redazione ha continuato a scivolare sul piano inclinato dell’indifferenza del “partito nuovo”.

La fine di quell’esperienza è stata accelerata da una ottusa visione imprenditoriale, ma probabilmente servivano risorse economiche e soprattutto editoriali/commerciali/culturali che difficilmente si possono trovare in circolazione in Italia. Si doveva agire con decisione 5 anni fa, continuando ad investire sul web, aprendo alla sperimentazione video e riducendo radicalmente i costi fissi. Poi dobbiamo essere realistici: non è detto che i risultati, anche con questa cura da cavallo, poi sarebbero arrivati. Certamente era il solo stretto sentiero che l’editoria politica democratica poteva avere per sopravvivere…

Riuscirà l’Unità a risorgere dalle proprie ceneri? Se intendiamo il giornale popolare che abbiamo conosciuto fino agli anni 80, la risposta è NO. Neppure questa Unità lo era più.

Io penso che uno spazio politico e culturale c’è ed è enorme. Ho molti più dubbi nel pensare che esista uno spazio commerciale in grado di sostenere un’impresa editoriale che faccia riferimento a quel mondo: servirebbe una svolta talmente forte e profonda che neppure la freschezza renziana ha dimostrato di avere. Comunque serve un gruppo di investitori, serve un leader editoriale capace di interpretare questo mondo con doti creative e conoscenze di web molto profonde. Serve un’organizzazione aziendale totalmente diversa da ciò che è esistito fino al pomeriggio del 31 luglio 2014.

L’estemporaneità di progetti che sono nati e morti in un battere di ciglia ci dicono che un’impresa editoriale non si può improvvisare. Purtroppo non siamo più in un’epoca in cui possono bastare le idee per far vivere un’editore. Per fortuna, però, non può più esistere un’azienda che vive di sole logiche politiche per cui non si guarda al conto economico, tanto poi alla fine qualcuno che paga i debiti si trova…