Il Compagno Biondi

Gen 14, 13 Il Compagno Biondi

(Con molta calma ripubblico qui alcuni post del mio vecchio blog, per averli on line e per sistemare un po’ le cose. Questo è uno degli ultimi del 26 maggio 2011)

… Naturalmente non si tratta di tramutare ognuno di noi in tanti poliziotti dilettanti alla ricerca della spia, dell’informatore, del provocatore, del nemico. No. Questa ricerca bisogna farla e bisogna farla con acume, con intelligenza perchè sarebbe ingenuo supporre che il nemico di classe rinunci all’arma dello spionaggio e della provocazione contro il nostro partito che è così forte, così agguerrito e così importante nella lotta per la pace, il lavoro, la libertà, il socialismo. Lo spionaggio e la provocazione sono vecchie armi dei capitalisti e dei reazionari e furono, ieri, con il fascismo e col nazismo, imposte ed elevate a scienza di governo e a fenomeno di massa con l’OVRA e la Gestapo con le milizie e con l’esercito di spie disseminato in ogni dove… Ma la vigilanza fondamentale è quella politica e deve riferirsi all’applicazione della linea del partito. L’agente del nemico, da qualunque parte provenga, è sempre portato a non realizzare la politica del partito, a sabotarla apertamente o subdolamente, ad interpretarla o spiegarla in modo strano o sbagliato. Ecco perchè una vigilanza attiva e costante in questo campo permette di smascherare l’agente del nemico, il provocatore. Certo non si tratta di considerare tutti coloro che non sono in linea con la politica del partito o che fanno fatica ad assimilarla e ad applicarla come dei provocatori e degli agenti del nemico. No. Tutt’altro! Con questi bisogna intavolare il più ampio dibattito, per giungere ad una spiegazione onesta e leale e a un allineamento nell’azione necessaria alla causa comune. Non è dunque di questi che parliamo, che sono compagni, ma di coloro che eventualmente si camuffano da compagni e che compagni non sono… (Editoriale di Edoardo D’Onofrio, della segreteria del PCI, su “Il Quaderno dell’Attivista” a cura della commissione Propaganda della Direzione del PCI, numero 4, 16 febbraio 1951)

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Luigi Biondi è morto. L’ho saputo con un po’ di ritardo, ma voglio raccontare chi è stato per me questo militante di PCI della mia città. Ecco, semplicemente: Luigi era un comunista imolese. Anzi, per me è stato Il Comunista.

Il primo ricordo è dei tempi del delitto De Simone. Fu una brutta storia, che sconvolse Imola. Era il 27 marzo del 1974 e le tensioni in città erano oltre il limite di guardia. Se non mi confondo (avevo 14 anni…) poche settimane prima c’era stato un attentato alla sezione del PCI Gualandi: qualcuno, una notte, aveva appiccato il fuoco alla sede che si trovava nel prato della Rocca. Ciò aveva creato un clima tetro tra neofascisti, i militanti del PCI, i diversi gruppi della sinistra, gli anarchici… Davide De Simone era un ragazzo di destra. Fu trovato morto, con un coltello infilato nel costato, sulla sua auto in via Vittorio Veneto, a 300 metri dalla sezione Rivalta del PCI di via Fratelli Cairoli (che ancora oggi è una sezione del PD). In quel contesto la sensazione che quel delitto potesse avere uno movente politico era assai diffusa. A quel punto scattò la mobilitazione del PCI e il presidio delle sedi, la cosiddetta “vigilanza democratica”. Sono stati giorni carichi di tensione per una città che stava vivendo una crescita economica importante e che stava gettando le basi per anni di benessere e di alto grado di qualità della vita. Ricordo quasi fisicamente l’angoscia del sospetto che il colpevole di quell’assassinio potesse essere “uno di noi”. Io ero cresciuto a pane e politica, e sentivo quell’incertezza come un macigno, come un incubo. Il 28 marzo mattina non sapevo ancora nulla, avevo lezione di storia con il prof. Ungania, un professore di lettere che quell’anno sarebbe andato in pensione. Era un uomo di destra, e nella III E delle medie Innocenzo da Imola non piaceva a nessuno. Fu lui a dare la notizia e – non so se solo nella mia memoria – non nascondeva un ghigno di soddisfazione perversa, sperando che finalmente nella roccaforte del PCI, esplodesse uno scandalo politico. Tacqui. La mia timidezza mi paralizzò. Poi non sapevo nulla, avevo solo un travaso di bile. Ma quell’episodio, quel racconto fazioso, mi fece arrabbiare, tanto che per la prima volta nella vita fui io a chiedere a mio padre di andare alla manifestazione dei PCI (di solito era il contrario e preferivo passare il tempo in altro modo). Il mio ricordo a questo punto si sbiadisce. Il delitto si rivelò causato da una banale questione di corna, ma di nitido, invece, c’è la piazza, la gente e soprattutto nella mia memoria svetta la faccia di un uomo possente, sembrava un pugile buono, che anche nella sua postura emanava una sensazione di forza. Era defilato, ma con uno sgardo vivissimo, occhi che andavano oltre a dove guardavano. Un animale da punta che difendeva la sua nidiata. Era Luigi Biondi, in servizio. Scoprii dopo che lui era in servizio permanente.

Mi colpì. Non sapevo ancora chi fosse, ma ne ero già affascinato.

Nel dicembre di quell’anno la mia famiglia si trasferì ad abitare in via Case di Dozza. In una casa vecchia e umida, ma nel cuore della città, rispetto al condominio della Fornace Gallotti, che stava alla periferia della “metropoli imolese”. Fu un cambio radicale delle mie abitudini, delle mie amicizie, del mio modo di pensare. Cominciai a frequentare la federazione della FGCI di viale Zappi e la sezione Rivalta, sede del Circolo Karl Marx della Federazione Giovanile Comunista Italiana, a due passi da casa. Era una sezione con un ufficio operativo e una sala riunioni che a me sembrava immensa, che poteva contenere oltre cinquanta di persone (un esercito rispetto alla capienza della vecchia sezione Lenin di Zolino). Ma soprattutto aveva una cantina meravigliosa. Non mi è stato concesso spesso di scendere laggiù, ma ho sempre avuto la sensazione che in quel cunicolo ci fossero dei tesori e dei segreti da custodire. Ricordo di avere visto libri degli anni 50, una serie di scatole con medaglie evocative e un ritratto di Stalin che nessuno aveva mai avuto la forza di distruggere. Era la sezione di gente tosta. In molti non ci sono più, ma varrebbe la pena ricordarli tutti. Non ci riuscirò, ma mi piace citare: Vanzio Galamini, l’amministratore, il primo gestore del patrimonio del partito che ho conosciuto e sua moglie così combattiva e autorevole; il segretario era il giovane Antonio Landini; poi c’era la femminista Elda Mongardi, il marito Franco Conti, Antonio Landi, Piero Baraccani, Ivo Ivoni (un tipo dalla simpatia pirotecnica), il vecchio Foschi, ma soprattutto c’era lui: Luigi Biondi.

All’inizio la sua presenza mi inquietava. Non perchè facesse o dicesse chissà che, ma per l’alone di mito che lo circondava. Imola non è mai stato luogo di grandi manifestazioni, ma lui era l’uomo del servizio d’ordine. Non credo abbia mai fatto male ad una mosca, ma aveva i mezzi per distruggere fisicamente chiunque. Era cordiale, ma dietro a quella faccia rettangolare mi immaginavo dei pensieri molto rigidi e glaciali. Il mito era alimentato dal suo essere un operaio modello, uno Stacanov di provincia. Lavorava all’Ami, l’azienda municipalizzata imolese (da anni confluita in Hera), era “un elettrico”. Ma sapeva fare tutto. Vederlo risolvere qualsiasi problema pratico in sezione era uno spettacolo. Il più impressionante facility manager che abbia mai visto all’opera.

Poi con il passare del tempo ho cominciato a conoscerne anche altri aspetti. Ricordo che di fronte alla sezione c’era una trattoria: Da Mara. Il donnone che gestiva la cucina era alta, grossa, mora e con dei baffoni da sparviero. Nel dopo riunione era un appuntamento fisso: i tortellini della Mara erano buoni, anche se non ho mai voluto indagare nella cucina, perchè la sensazione di igiene approssimativa era chiara. Bhè, lì il Biondi gaudente e cazzone veniva fuori alla grande e il racconto le sue avventure leggermente più private (del suo vero privato non ho mai saputo nulla): un must. Era una carica di passione, simpatia, ironia. Un piacere starlo ad ascoltare.

Lui, Pietro Nonni (noto semplicemente come Nonni), Bruno Zanelli (“Brunì”, il piccolo Bruno) e Luigi Marabini (“Pancino”, il soprannome era una descrizione fisica del personaggio) erano il nucleo del servizio d’ordine del PCI di Imola. Il responsabile era un altro uomo di quella generazione, l’amministratore della federazione: Romeo Poli. Insieme potevano far paura, ma davanti ad un bicchiere di rosso ci si sganasciava dal ridere. In trattoria dopo le riunioni o nelle notti delle feste de l’Unità era normale che alzassero il gomito e cantassero a squarciagola e si lanciassero sfottò e prese in giro clamorose. Si narra, ma il confine tra la leggenda e la verità non si sa mai quale sia veramente, che i nostri quattro una volta partissero in macchina per andare ad Ancona e avessero una damigiana di vino sul tetto, con una budella che scendeva nell’abitacolo e se la passassero per dare un tiro, di tanto in tanto e, arrivati a destinazione, la damigiana fosse vuota.

Nella vita di partito era gente pratica, generosa, con una carica ideale che oggi ci sogniamo. Erano la parte umana della dura macchina PCI.

Non ricordo più i particolari, ma erano un gruppo che passava tanto tempo a scherzare e a progettare scherzi. Gli “Amici Miei” comunisti, prima che arrivasse al cinema il film di Monicelli. Biondi abitava in via Sacchi, a pochi metri da dove in quegli anni aprì il ristorante San Domenico. Era una stradina molto frequentata dai ragazzi delle scuole medie inferiori e da quelli che passavano di lì per andare alle magistrali. Evidentemente uno di questi ragazzi aveva deciso di prendere di mira la porta di casa Biondi e ogni mattina si fermava a mingere sull’uscio. Questa cosa, ovviamente, Luigi non la prese molto bene: per vendicarsi scorticò la cima un filo dell’alta tensione e lo lasciò libero li dove si formava la pozzanghera di “pioggia dorata”. Me lo raccontò e con malcelata serietà mi disse: “… Adesso non ci piscia più nessuno…”

Ma Biondi era anche un maestro di vita. Le fredde indicazioni del partito sulla “vigilanza democratica” sono lontane mille miglia dalla realtà delle esperienze che ho vissuto con lui. Ricordo le nottate prima delle elezioni amministrative del 1975, quando andavamo a affiggere i manifesti. Io, Vanni Bertozzi, Mario Sabbatani, Antonio Gioiellieri, Stefano Manaresi… Ci trovavamo spesso Biondi che usciva dal buio e “casualmente” passava di lì, per proteggerci, per guardarci le spalle. Una volta mi spiegò che se si pestava una lampadina con un mortaio di pietra, si faceva a piccoli pezzi il vetro e si mischiava alla colla, sarebbe stato più difficile trovare i manifesti staccati, perchè una volta asciugata la colla chi avesse tentato di strapparli si sarebbe ferito le dita. Poi per me è indimenticabile la lezione di guida per seguire una macchina sospetta: mi spiegò esattamente a quale distanza si doveva stare, tenendo le mezze luci, per evitare di essere identificati. Le luci facevano riflesso sullo specchietto retrovisore e chi era pedinato non poteva vedere che macchina fosse quella dietro di lui.

Ma Biondi era umanamente fantastico, disponibile con tutti, sempre pronto a dare una mano, sempre pronto a rinunciare a qualcosa per aiutare chi secondo lui era più debole. Un uomo dotato di un raro senso dell’ironia. Intanto che la salute lo ha sorretto lavorava quindici – diciotto ore alle feste de l’Unità. Era in grado di montare da solo o quasi la festa di via Casoni, dietro al palazzo dello Sport di via Volta. In quella del 1976 noi giovani organizzammo un concerto con Roberto Vecchioni. Il contratto era di 250 mila lire, una cifra folle per una sezione piccola come la nostra. Lui, tra i vecchi, sostenne l’iniziativa… per darci spazio. L’ingresso era fissato a 500 lire e vendemmo 86 biglietti. Fu un bagno di sangue. Fu deluso anche lui, ma non fece una piega. Altri ci massacrarono…

Poi c’erano le notti alle feste de l’Unità. In particolare al Mercato Ortofrutticolo, dove si faceva la festa grande. All’una e mezza, alle due, quando ormai se ne erano andati tutti, ci si trovava dietro la cucina del ristorante a guardare che cosa c’era nei pentoloni. La polenta con la salsiccia di quell’ora era la cosa più buona del mondo… Poi arrivavano i vigili urbani, quasi tutti compagni che faceano il giro di ronda, ma poi si fermavano a fare chiacchiere… Gli “animali della notte” si davano il cambio, ricordo il vecchio Romagna, un ubriaco cronico che si esibiva nella festa deserta dalle tre in avanti, poi c’era Pasolini (perchè identico al pilota di moto), e poi, verso le quattro, passavano i delinquetelli locali: Gianni Resca e Poldino. Io non credo di averli mai visti alla luce del giorno. Arrivavano ubriachi (non credo neppure di averli mai visti sobri) e anche con loro si chiacchierava e si cazzeggiava. Alle 5 cominciava ad albeggiare e arrivavano gli anziani a pulire e a darci il cambio… Io crollavo a letto. Biondi era ancora lì e quando tornavo c’era già. Era una vita abbastanza folle, ma io la ricordo con un piacere immenso. Era il calore di quelle relazioni che rendeva la politica l’attività per cui valeva la pena impegnarsi.

Ciò che mi colpiva era anche la serietà e la forza di volontà di Luigi. In occasione dei congressi di sezione il suo intervento era tra i più attesi. Non credo avesse finito le elementari, ma leggeva sempre con grande applicazione Rinascita, il giornale più denso e pesante che io abbia avuto per le mani. Non era raro sorprenderlo a leggere libri assai impegnativi. Biondi interpretava a modo suo quei mattoni e molto spesso, mischiando un italiano un po’ incerto con un bellissimo dialetto con cadenza della bassa, faceva discorsi forti, profondi, di grande intelligenza. Mi piaceva. Non gliel’ho mai detto. Tra comunisti non ci si facevano complimenti espliciti.

Se fossi un regista dedicherei un film a quegli anni di impegno, di passione, di amicizia, di umanità, di paura e di speranza. Se metto insieme il giro dei seggi per portare da mangiare ai rappresentati di lista ed agli scrutatori, le attese dei risultati elettorali, le notti di vigilanza in federazione, le preparazioni dei cartelli per le manifestazioni, le ronde democratiche in macchina, i viaggi in pullman per andare alle manifestazioni a Bologna o a Roma… mi accorgo quanto remoti siano questi ricordi e quanto mi hanno insegnato dell’organizzazione, delle relazioni tra persone, del “lavoro di massa”. E’ stata una grande scuola di vita. Irripetibile, oggi inimmaginabile e anche difficilmente raccontabile.

Luigi Biondi era l’espressione migliore della “doppiezza togliattiana”. Umile e fiero. Glaciale, roccioso e capace di grandi slanci. Leale. Quando lo riteneva necessario ruvido e duro. Uno che ti voleva bene ma che pudicamente non esibiva i suoi sentimenti, per non fartelo capire troppo. Ha incarnato il PCI di Imola che ho amato: capace di mobilitare il popolo (come nelle grandi organizzazioni emiliane), ma caldo e forte nelle relazioni con le persone come solo un romagnolo verace sa essere. Per il suo partito ha lottato finchè ha avuto forza, ha sperato in un mondo migliore finchè ha potuto. Gli ho voluto bene, come a un secondo padre.

E’ passato tanto tempo dall’ultima volta che l’ho incontrato: le mie visite ad Imola si sono molto diradate negli anni… Mi ha visto. L’ho visto. Era ricurvo, perchè quando gli faceva male la schiena era evidente che soffriva come un cane. Ci siamo avvicinati. Ci siamo abbracciati. Non ha detto una parola, mi ha guardato e si è allontanato piangendo. Ora, quel ricordo, fa piangere me.

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