Omaggio a Jan Palach in Piazza San Venceslao (di Massimo Ortalli)

Ago 12, 15 Omaggio a Jan Palach in Piazza San Venceslao (di Massimo Ortalli)
Massimo Ortalli
Farmacista
La nostra prima volta. Certamente attorno al 1975 quando i gruppi di amici erano identificati con il gruppo politico di appartenenza. Gli anarchici, mi ricordo, facevano il giro delle osterie: Al Vulton, alla Centrale, ai Tre Scalini… Avevano la chitarra e ad una cert’ora ci si mischiava a cantare tutti insieme… Lui degli anarchici imolesi è sempre stato il riferimento, dopo i grandi vecchi. Sempre molto riservato, tanto che non si trova una sua foto da nessuna parte.
Omaggio a Jan Palach in Piazza San Venceslao
Praga, ultimi giorni dell’anno 1989.
La foto. Praga turbina di emozioni e di angoli elettrizzanti. L’hanno chiamata la Rivoluzione di Velluto. Per me è stato un velluto a 220 volt.

Praga, 1989

Sono gli ultimi giorni del dicembre 1989. Torno a Praga, dopo una ventina d’anni. C’ero già stato nel 1970, in pieno regime comunista e a pochi mesi dal tragico giorno in cui Jan Palach aveva gridato il suo immenso, disperato grido di rabbiosa protesta. È una città differente, quella che ritrovo, molto differente, ma a bene vedere non così distante da quella, sempre misteriosamente fatata, che si sarebbe potuta immaginare. Del resto i praghesi sono gente seria, solida, e non a caso il buon soldato Schveick resta l’immagine di una inossidabile capacità di cogliere, fino in fondo, il senso delle cose.
Hanno aspettato vent’anni i praghesi per poter tornare a esprimere, senza l’incubo dell’armata fraterna, dei carri armati della gloriosa Armata Rossa, il loro desiderio di tornare a vivere una vita libera. Libera dalla paura, libera dalla tristezza.
Sono tutti lì, in quella fredda sera praghese, in piazza San Venceslao, una delle più belle piazze del mondo. Talmente bella che la sua bellezza rimase inalterata anche quando si passò da una primavera in fiore a un inverno di morte. Quando era nata una speranza, non solo in Cecoslovacchia, non solo a Praga, ma un po’ dappertutto, in Asia, in Europa, nelle Americhe: la speranza che le cose potessero e dovessero cambiare e che le crudeli leggi del potere, di tutti i poteri, potessero essere finalmente cancellate.
Era freddo quell’inverno del 1969, in gennaio, quando Jan Palach si dette fuoco, proprio lì, nella sua bella piazza praghese, per ribadire che il popolo cecoslovacco non si stava consegnando  alla reazione, ma voleva solo ridare un senso ai vecchi ideali di libertà ed uguaglianza, tentando, come tanti altri in Europa, di indicare nuove strade per raggiungere vecchi obiettivi. Strade e obiettivi che la logica di un potere insensibile e chiuso in se stesso non poteva accettare, non poteva neppure pensare che fossero anche solo sognati. E difatti l’uso della forza, “legittimato” dalla politica degli equilibri mondiali, fu la sola risposta che si seppe dare. E che tutte le potenze dell’epoca, tutte, accettarono comunque come ineluttabile.
Del resto una metamorfosi inarrestabile, sempre più veloce e paranoica, aveva  trasformato lo slancio di una rivoluzione che voleva abbattere lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, in una palude di conformismo, paura e oppressione. Quella rivoluzione che fu salutata dal proletariato del mondo intero come l’avvento di un’epoca nuova, si era trasformata nello strumento più efficace per soffocare ogni forma di libertà. Ci avevano pensato i carri armati della gloriosa Armata Rossa a spegnere quel vento e a “salvare il popolo cecoslovacco dal pericolo fascista”, ribaltando grottescamente, vergognosamente, le imprese di pochi decenni prima, quando l’esercito sovietico contribuì a liberare l’Europa dal mostro nazista.Ed è freddo anche questa ultima sera del dicembre 1989, ma è un freddo più sopportabile, perché finalmente le cose sono cambiate, perché i cuori sono più caldi. In queste ore Vaclav Havel è diventato presidente della nuova Cecoslovacchia, e il suo passato di onesto oppositore e il suo presente di letterato sembrano la garanzia migliore  per il futuro del paese. Del resto la patria di Kafka, di Hasek, di Hrabal, non poteva scegliere meglio.
Girando per le vie di Praga, per i vicoli tortuosi che portano al Castello, sbirciando nelle meravigliose osterie – memorabile la Bonaparta – affollate di una folla più festosa che mai, passeggiando per il centro gioioso e illuminato a festa, sembra lontano il sacrificio di Jan Palach e degli altri giovani che ne seguirono l’esempio, ma ritrovare quella piccola folla attorno al luogo del tragico rogo, mi riporta a ricordare quel vento meraviglioso che aveva soffiato non solo nei paesi dell’Est, nei paesi della cosiddetta cortina di ferro, ma anche altrove, in tanti altrove, accarezzando con la sua brezza sottile un sogno collettivo.
Non soffia vento questa notte che avvolge la nuova Praga, nulla che possa smuovere quell’irreale albero di natale che sovrasta, scheletrito, il mare di sentimenti dei cittadini praghesi. Ma non c’è tristezza negli sguardi, c’è solo la muta consapevolezza che anche un “semplice” gesto individuale, un “semplice” grido di protesta può contribuire a cambiare il mondo. E la gratitudine per quanti quel grido hanno voluto sbatterlo in faccia alle logiche del potere. Di tutti i poteri.