La solitudine del coniglio (di Matteo Bordone)
Matteo BordoneGiornalistaLa nostra prima volta. Alla Rai di viale Sempione a Milano, in diretta a Radio Due, per una puntata di Condor, forse nel novembre 2006.La solitudine del coniglioParigi, 2012La foto. Era verso la fine di una quelle giornate di chilometri e chilometri di scarpinata. Era estate, ma a Parigi si sta sempre bene. Il coniglio era timido e orami a caccia di carote…
Cominciamo. La giornata di ieri comincia con la diarrea del cane, che forse non è un presagio al 100%, ma comunque qualcosa vorrà dire. Un tempo l’unico problema era quello dell’igiene del cane; adesso che siamo responsabili di tutto, resti lì con il sacchettino, la gente ti guarda, cosa vuoi fare?! Niente. Vai via. Comunque gli ho dato l’imodium dei cani, che si chiama non so come. Credo che non cagherà mai più.Leggo i giornali, faccio colazione lunga, passa Maurice del piano sopra a giocare a PES dopo pranzo, fumiamo una canna, parliamo di Charlie Hebdó e della figa. Maurice vince, ne fumiamo un’altra, se ne va, resto imbambolato. A metà pomeriggio mi faccio un tè. Ciondolo per casa senza affrontare la questione. Sento dischi negri. Scrivo a Mathieu per sapere a che ora comincia secondo lui. Mi dice sul tardi, che poi non si sa bene cosa voglia dire, a Milano potrebbe voler dire che non c’è praticamente nessuno prima delle 2; nello specifico significa che non si sa quando si cominci a ballare e a bere, ma Esther prima di quell’ora non si vede. Mi rimetto sul divano. Sento della musica a caso. Ripassa Maurice, facciamo un’altra partita a PES, fumiamo un’altra canna. Una sola, dico, perché devo uscire. Ne fumiamo un’altra. Sto chiaramente facendo finta di niente.
Leggo della roba noiosissima di lavoro con l’intento di riaddormentarmi. Metto la sveglia alle nove e mezza. Riesco a riaddormentarmi. Non sento la sveglia. Alle undici e mezza mi sveglio, penso che forse è tardi. Ma forse no, va bene così, solo che adesso devo uscire. Provo il costume. Sembro un cretino grave. Lo tolgo e lo metto in un sacchetto: se sono tutti vestiti, lo metto e sembro simpatico, ma se sono tutti vestiti normali con due occhialetti e una parrucca non lo metto per evitare l’effetto cretino grave di cui sopra. Mi preparo per andare. Mathieu mi scrive che stanno per partire. Indicazione vaga, potrebbe voler dire tra due ore, tre ore, mezz’ora, cinque minuti, ma dell’arrivo di Esther non si sa niente, non si può sapere. Come sempre la cosa più importante è la meno nota. Esco, pioviggina, prendo un taxi con il vestito in un sacchetto.
Arrivo nel posto che sono tutti già belli in piedi, e la musica è bella. Mi faccio un gin tonic carico in cucina, mi guardo intorno. Lei non c’è. Non so se vestirmi. C’è un Michael J. Fox revivalato, un Groot dei Guardiani della Galassia fatto con la corteccia attaccata addosso, Mathieu è vestito da Minion che non è male. Youssef, che è uno simpatico del dipartimento di informatica, arabo e grasso, si è vestito da Bradley Cooper in American Sniper, con un fuciletto nerf al posto della carabina da cecchino. Carabina? Non so come si dica. Fucile di precisione. Va be’. Spara pallette di plastica in giro. Fa ridere. Mi faccio un altro gin tonic. La musica è bella. C’è la tua omonima Françoise, la bretone, ti ricordi, con cui ho scopato due mesi fa. È vestita da non ho capito cosa ma è mezza nuda e il fatto non mi dispiace. Le chiedo da cosa è vestita. È qualcosa di francese che non conosco ma mi metto a ballare con lei, la quale è davvero molto nuda, e poi finisce che mi mette la lingua in bocca, o io a lei, non si capisce.
A un certo punto mi sento male, faccio per andare in bagno, non arrivo, finisce che cazzo mi sbocco addosso. Finalmente arrivo in bagno, e lì faccio lo schifo. Stravomito, forse mi addormento o svengo anche qualche minuto lì sul tappetino. Bussano. Io sono mezzo nudo coi vestiti conciati. Per fortuna quasi tutto addosso a me. Non rispondo. Bussano. Dopo un po’ li sento spazientiti, e riconosco forse una voce. Sono a pezzi, apro e fine. È Esther. Le dico mi vai a prendere un sacchetto all’ingresso fatto così e così. Lei dice merde, sciant, pute, quelle cose lì dei parigini, e dopo un po’ torna col sacchetto. Me lo passa chiedendo se ce la faccio. Dico di sì ma non è vero. Chiudo la porta. Mi vesto molto a fatica. Da fuori sento che Esther è preoccupata e indispettita. Esco. Se la prende con me. Mi dà forse dello sfasciato, anche se non ti saprei ripetere le parole esatte. Non rispondo molto: scuse ma non dette bene. Vorrei lasciarmi cadere nelle sue braccia e addormentarmi. Ma non è il caso. Scivolo verso una stanza piena di cappotti lì di fronte, cado nelle loro braccia, mi metto un po’ tranquillo. Mi gira un po’ la testa, ma la stanchezza tira più forte della rotazione, e mi addormento.
Quando mi sveglio per davvero è giorno fatto. Eloise ha da fare. Mi ha fatto un caffè. Nella mia testa, nel mio corpo, è ancora il giorno prima. Non sono sveglio come uno che ha dormito davvero: sono sveglio come uno malato dopo un sonnellino. Bevo il caffè piano, se no vomito. Non faccio nemmeno la pipì. Muoio di sete. Esco. Faccio una passeggiata verso casa, vestito come sono, con la maglietta vomitata nel sacchetto. I pantaloni erano troppo conciati forse, qualcuno deve averli buttati.
È una bella giornata. Non è andata proprio come volevo, ma insomma. Il cane in compenso sta meglio.
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