Parole per Imola: Parola d’Onore
Matteo Sabbatani è nato a Imola, dove vive, il 17 maggio del 1977. “Ho conseguito, nel 1997, il diploma di tecnico della gestione aziendale e, il 23 maggio del 2003, discutendo una tesi su Max Weber e la critica positiva al materialismo storico, mi sono laureato, all’università di Bologna, in Scienze Politiche. Dal luglio del 2005, in fine, collaboro col Comune di Imola e con il Nuovo Circondario Imolese in veste di consulente per l’abbattimento delle barriere architettoniche”.
PAROLA D’ONORE
Nel linguaggio comune, mediante il ricorso – in vero quanto mai sporadico, almeno a mio avviso – alla locuzione “Parola d’onore”, si è soliti sussumere un concetto che – se ha avuto una sua ovvia evoluzione storico-antropologica – oggi appare (purtroppo, a detta di molti) in lento ed inesorabile declino: vediamo, qui di seguito, di comprenderne ed enuclearne le molteplici ragioni, procedendo anzitutto ad una necessaria scomposizione gnoseologica (Termine filosofico equivalente a «teoria della conoscenza»- NDR) dell’espressione in oggetto, prima di esperirne una declinazione confacente alla nostra realtà.
È senz’altro opportuno, a tal fine, prendere le mosse dalla considerazione in forza della quale – forse anche paradossalmente – la postmodernità, era della comunicazione per antonomasia, si caratterizza per un uso – in senso letterale – “smodato” e “distorto” della parola genericamente e generalmente intesa: uno dei mali della contemporaneità, infatti, risiede – secondo me – nel costume per cui, ad un’evoluzione solo apparente della lingua (che si estrinseca nel sempre più frequente utilizzo di vocaboli di derivazione anglofona o comunque anglosassone), si accompagna la crescente ignoranza del significato e del significante dei morfemi di casa nostra.
Non di meno, ed è un altro paradosso, la tecnologia imperante – che non smette di implementare modalità sempre nuove di trasmettere, in maniera pressoché istantanea, messaggi ed informazioni – contribuisce non poco al progressivo impoverimento del linguaggio.
Il proliferare di twit, sms ed anche emoticon (giacché una faccina, per quanto graficamente ineccepibile, non potrà mai sintetizzare perfettamente uno stato d’animo), cioè, è indice – non solo di una comunicazione sempre più impersonale, indiretta, virtuale e, in sostanza, anaffettiva – ma anche, e forse soprattutto, di un vocabolario individuale che – complice l’artificiosa necessità, che tutti abbiamo ormai introiettato, di dire tutto (e il contrario di tutto, sovente) in poco spazio e con un numero limitato di caratteri (vale a dire di parole) – è formato da un novero esiguo di termini, da ancor meno sinonimi e da uno sterminato alfabeto di abbreviazioni e forzati neologismi.
Tuttavia – e veniamo così al terzo paradosso concernente la parola – una società come questa – sempre in preda a pulsioni tese a confondere, quando non a fondere in un unicum potenzialmente indistinto e indistinguibile, la sfera privata e quella pubblica – sembra poggiare imprescindibilmente su una strettissima correlazione tra identità personale ed una personalità sociale che si esplica e si invera solo con la parola, appunto, sia pur espressa nelle forme e nei modi cui si faceva riferimento pocanzi.
Oggigiorno, insomma, solo se si parla – anche a costo di affermare qualcosa e smentirla immediatamente –si esiste e si è membri riconosciuti ed effettivi di qualsivoglia comunità o consesso (reale o virtuale poco importa), altrimenti – ahi noi – non si è nulla, nemmeno individui.
Ma la parola – non sfugge – non è solo e non è tanto quel “cubo di Rubik”, quella matassa quasi inestricabile di paradossi che, sin qui, abbiamo tentato – sia pur sommariamente – di descrivere; ma la parola – non sfugge – malgrado l’estrema contingenza che le è propria (in virtù della quale si dà quando viene pronunciata e poi svanisce) è, per sua stessa natura e per fortuna, intrinsecamente degna d’onore: rappresenta, infatti, il simbolo, il segno distintivo della nostra specie – la specie umana – dalle altre che popolano il pianeta.
Se dunque è questa – per così dire – l’essenza della parola, se essa – in altri termini – è “d’onore” in punto di fatto, allora è proprio sul significato dell’onore che – concludendo questa breve riflessione – dobbiamo soffermarci.
È bene quindi – prima di postulare qualunque considerazione di merito – rammentare che l’articolo cinquantaquattro della Costituzione sancisce quanto segue:
Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore […]
L’onore, pertanto, è un elemento dirimente del vivere in società: lo è – a guardare la norma di cui sopra nel suo complesso – non solo per quanti (oltre, appunto, all’onore) hanno altresì l’onere di gestire – in nome e per conto della collettività – la cosa pubblica, ma anche – in eguale misura – per ciascuno dei membri della collettività medesima, i quali sono tenuti a rispettare – quindi, seppur implicitamente, ad avere l’onore di conoscere – quella Costituzione e quelle Leggi su cui si fonda la loro convivenza.
Non v’è dubbio che – intesa nella sua precipua accezione, ovvero come servizio reso e/o da rendere alla comunità, come rappresentazione, promozione e tutela dei valori di fondo che ne garantiscono l’armonica coesione e la crescita – la Politica incarni , a mio giudizio, il più alto onore di cui un individuo possa essere investito; non v’è dubbio, almeno per quanto mi riguarda, che – specie sul piano locale – solo la Politica, facendosi carico delle quotidiane necessità delle persone, può – in un certo qual modo – preservare quell’onore che ne fa, non già uno vacuo vocabolo tra tanti, ma la parola che designa e descrive – in modo emblematico e mirabile – l’ethos di una polis.
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