Sinistra ermetica e decadente

Ago 06, 19 Sinistra ermetica e decadente

Si è parlato, polemizzato, e soprattutto cazzeggiato di stile, di come un rappresentante delle istituzioni si dovrebbe comportare, di che cosa sia dignitoso e di che cosa sia esecrabile. Il problema, a mio parere non è nella forma (che pure spesso è sostanza), ma è nell’”analisi concreta della situazione concreta”. Nel marxismo (mi si perdoni un termine tanto desueto). Mi ha colpito, per altro, leggere che ad un certo punto della sua vita: “Marx si asteneva dal mangiare – ha scritto qualche settimana fa Giorgio Gandola su Panorama – perché non riusciva a sbarcare il lunario”. La teoria secondo cui è in base a questo che “si mise in testa di abolire la proprietà privata quando, durante l’esilio a Londra, gli fu pignorata anche la culla del quarto figlio. Il primo volume del Capitale vide la luce in un sordido bilocale di Soho, al 28 di Dean street. All’angolo della via c’era un ristorante, il Quo Vadis, che quasi per contrappasso oggi è un luogo cool con divanetti di velluto blu, dove si può prendere in affitto per 600 sterline al giorno l’ex lurido appartamento del filosofo” è faziosa, ma non credo così lontana dalla realtà. 

Certo c’è un’ironia delle cose e ce n’è una della storia. Ma la storia, nonostante tutto, 

ci può insegnare molte cose. Come, se ci prendiamo un poi di tempo, la letteratura può aiutarci a fermarci un attimo e ragionare sulle strade che abbiamo percorso.

Ho ripreso in mano, dopo decenni, Il giardino dei Finzi Contini, di Giorgio Bassani. Un libro dove ritrovo le mie sofferenti sentimentali incapacità comunicative giovanili (non è che con il passare del tempo le cose siano poi così migliorate). Forse complice il film di Vittorio De Sica (per il quale Bassani scrisse alcuni dialoghi della sceneggiatura), la figura di Giampi Malnati, il comunista, ingegnere dell’industria di gomme sintetiche, non mi era stata mai piaciuta. Ma rileggendo le pagine delle polemiche rabbiose sulla politica internazionale e nazionale con il protagonista (l’io parlante dello scrittore), trovo degli spunti interessanti anche per leggere alcune cose di oggi.

Riporto tre pagine. La conversazione, nel romanzo, risale all’autunno del 1938, avviene nell’alloggio di Alberto Finzi Contini (che non si azzarderebbe mai a mettere in discussioni le tesi del suo amico Malnati) e il protagonista del romanzo. Non c’è Micòl Finzi Contini, che in quei giorni non era a Ferrara a condividere quelle infuocate conversazioni, ma a Venezia a lavorare sulla sua tesi di laurea.

Erano i mesi immediatamente successivi il patto di Monaco, e questo, appunto, il patto di Monaco e le sue conseguenze, era l’argomento che tornava più di frequente nei nostri discorsi. Che cosa avrebbe fatto, Hitler, ora che la regione del Sudeti era stata incorporata nel Grande Reich? In quale direzione avrebbe colpito? Io, per me, non ero pessimista, e una volta tanto Malnate mi dava ragione. Secondo me, l’accordo che Francia e Inghilterra erano state forzate a sottoscrivere al termine della crisi del settembre scorso, non sarebbe durato al lungo. Sì. Hitler e Mussolini avevano indotto Chamberlain e Daladier ad abbandonare la Cecoslovacchia di Benes al suo destino. Ma poi? Cambiando magari Chamberlain e Daladier con uomini più giovani e più decisi (ecco il vantaggio del sistema parlamentare! – esclamavo – ), tra breve Francia e Inghilterra sarebbero state in grado di puntare i piedi. Il tempo non poteva non giocare a loro favore.

Insomma i ragazzi del 1938 (molti anche vittime delle leggi razziali, evidentemente sottovalutate) vedevano la debolezza di Francia e Inghilterra, ma volevano credere che la prospettiva fosse positiva. Un po’ come oggi cerchiamo di guardare a quello che di buono c’è in Francia e in Germania. Le premesse della situazione tedesca di questi giorni sono ancor più preoccupanti. Poi, nel romanzo, non con grevità, ma con eleganza viene descritta l’ideologia del comunista della classe media del 1938 nelle sue posizioni di politica internazionale: 

Bastava tuttavia che il discorso cadesse sulla guerra di Spagna oramai agli sgoccioli, o ci si riferisce in qualche modo all’URSS, perché l’atteggiamento di Malnate nei confronti delle democrazie occidentali, e di me, nella fattispecie, considerato ironicamente loro rappresentante e paladino, diventasse meno flessibile. Lo vedo ancora sporgere in avanti la grande testa bruna dalla fronte lustra di sudore, fingere gli sguardi nei miei nel solito insopportabile tentativo di ricatto, tra morale e sentimentale, a cui ricorreva così volentieri, mentre la sua voce assumeva toni bassi, caldi, suadenti, pazienti. Chi erano stati, per favore – chiedeva -, chi erano stati i veri responsabili della rivolta franchista? Non erano state per caso le destre francesi e inglesi, le qual l’avevano non soltanto tollerata, ma addirittura appoggiata e applaudita?Proprio come il comportamento anglo – francese, corretto nella forma, in realtà ambiguo, aveva permesso a Mussolini, nel ’35, di fare un solo boccone dell’Etiopia, anche in Ispagna era stata soprattutto la consapevole incertezza dei Baldwin, dei Halifax, e dello stesso Blum, a far pendere la bilancia della fortuna dalla parte di Franco. Inutile dar la colpa all’URSS e alle Brigate Internazionali – insinuava sempre più dolcemente -, inutile imputare alla Russia, diventata la comoda testa di turco a portata di tutti gli imbecilli, se gli avvenimenti, laggiù, stavano ormai precipitando. Altra, la verità: soltanto la Russia aveva capito fin dall’inizio chi fossero il Duce e il Fürer, lei sola aveva previsto con chiarezza l’inevitabile intesa dei due, e agito per tempo di conseguenza. Le destre francesi e inglesi, al contrario, sovversive dell’ordine democratico come tutte le destre di tutti i paesi e di tutti i tempi, avevano sempre guardato all’italia fascista e alla Germania nazista con malcelata simpatia. Ai reazionari di Francia e d’Inghilterra il Duce e il Fürer potevano sembrare dei tipi certo un po’ scomodi, un tantino maleducati e eccessivi, però da preferirsi sotto ogni aspetto a Stalin, giacché Stalin, si sa, era sempre stato il diavolo. Dopo aver aggredito e annesso Austria e Cecoslovacchia, la Germania cominciava già a premere sulla Polonia. Ebbene, se Francia e Inghilterra erano ridotte a stare a vedere e a subire, la responsabilità della loro attuale impotenza bisognava accollarla proprio a quei bravi, degni, decorativi galantuomini in cilindro e stiffelius (così adatti a corrispondere almeno nel modo di vestire alle nostalgie ottocentesche di tanti letterati decadenti…) che ancora adesso le governavano.

Ancora di più la forza delle posizioni dell’ingegnere milanese sono forti quando si parla dell’Italia di quel periodo:

Ma la polemica di Malnate si faceva anche più viva ogni qualvolta si venisse a parlare della storia italiana degli ultimi decenni. Era evidente – diceva -: per me, e per lo stesso Alberto, in fondo, il fascismo non era stato altro che la malattia improvvisa e inspiegabile che attacca a tradimento l’organismo sano, oppure, per usare una frase cara a Benedetto Croce, “vostro comune maestro” (a questo punto Alberto non mancava mai di mettersi a scuotere desolato il capo in segno di diniego, ma lui non gli dava retta), l’invasione degli Hyksos. Per noi due, insomma, l’Italia liberale dei Giolitti, dei Notti, degli Orlando, e perfino dei Sonnino, dei Calandra e dei Facta, era stata tutta bella e tutta santa, il prodotto miracoloso di una specie di età dell’oro a cui, potendo, sarebbe stato opportuno tornare pari pari. Se non che noi sbagliavamo, eccome se sbagliavamo! Il male non era affatto giunto all’improvviso. Veniva da molto lontano, invece, e cioè dagli anni del primissimo Risorgimento, caratterizzati da un’assenza diciamo pure totale di partecipazione di popolo, di popolo vero, alla causa della Libertà e dell’Unità. Giolitti? Se Mussolini aveva potuto superare la crisi seguita al delitto Matteotti, nel ’24, quando tutto attorno a lui sembrava sfaldarsi e perfino il Re tentennava, noi dovevamo ringraziare di ciò proprio il nostro Giolitti, e Benedetto Croce, anche, ambedue disposti a mandar giù qualsiasi rospo purché l’avanzata delle classi popolari incontrasse impedimenti e ritardi. Erano stati proprio loro, i liberali dei nostri sogni, a concedere a Mussolini il tempo necessario perché riprendesse fiato. Nemmeno sei mesi dopo, il Duce li aveva già ripagati del servizio sopprimendo la libertà di stampa e sciogliendo i partiti. Giovanni Giolitti si era ritirato dalla vita politica, riparando nelle sue campagne, in Piemonte; Benedetto Croce era tornato ai prediletti studi filosofici e letterari. Ma c’era stato chi, di gran lunga meno colpevole, anzi incolpevole del tutto, aveva pagato molto duramente. Amendola e Gobetti erano stati bastonati a morte, Filippo Turati si era spento in esilio, lontano da quella Milano dove pochi anni prima aveva sepolto la povera signora Anna; Antonio Gramsci aveva preso la via delle patrie galere (era morto l’anno scorso, in carcere: non lo sapevamo?); gli operai e i contadini italiani, insieme coi loro capi naturali, avevano perduto ogni effettiva speranza di riscatto sociale e di dignità umana, e ormai da quasi vent’anni vegetavano e morivano in silenzio.


E Bassani, a conclusione di questa invettiva del Malnati, si guarda allo specchio e scrive:

Non era facile a me contrappormi a queste idee, e per varie ragioni. In primo luogo perché la cultura politica di Malnate, che il socialismo e l’antifascismo li aveva respirati in famiglia fin dall’infanzia più tenera, soverchiava la mia. In secondo luogo perché il ruolo al quale lui pretendeva inchiodarmi (il ruolo di letterato decadente o “ermetico”, come diceva, formatosi in politica sui libri di Benedetto Croce), mi sembrava inadeguato, non rispondente, e quindi da rifiutarsi prima ancora che fosse avviata tra noi qualsiasi discussione. Fatto si è che preferivo tacere, atteggiando il volto a un sorriso vagamente ironico. Subivo e tacevo.

Ora, la verve polemica nei confronti di Croce, più ancora che verso Giolitti, credo siano parte fondante delle ideologiche convinzioni dei comunisti degli anni ’30. Non voglio fare alcuna parallela considerazione ai nostri giorni. Magari ci fossero dei Benedetto Croce in circolazione. Ma certo il ruolo “decadente ed ermetico” della sinistra non si smentisce neppure nei giorni nostri.

Contrapporre l’immagine di Aldo Moro in spiaggia nel 1961 a quella di Matteo Salvini è una forma di masochismo minoritario tipico delle conversazioni da twitter o Facebook. Lo dico io che riporto un libro pubblicato nel 1962 e in quanto a snobismo non trovo tanti rivali in circolazione. Ma per polemizzare con chi parla alla pancia degli italiani non si possono usare le armi spuntate di un’élite intellettuale, ma la forza delle parole della sinistra: democrazia, solidarietà, giustizia, uguaglianza. Concetti popolari che devono essere riempiti di rivendicazioni, di battaglie politiche, di condivisione e di impegno per raccogliere il consenso. Un lavoro difficile, umile e pieno di delusioni. Ma del tutto indispensabile. Se non ritornano popolari questi concetti difficilmente si troverà la forza di risalire la corrente del consenso.